A partire dall’VIII secolo a.C. le comunità elleniche che vivevano in piccoli villaggi cominciarono a riunirsi e a formare delle città (una eco di questo fatto rimane nel nome stesso di Atene, che in greco è plurale, appunto a memoria del fatto che originariamente si trattava di un gruppo di comunità raccolte vicino a una ripida collina.
Le città imposero il proprio controllo sul territorio circostante, anche grazie al fatto che l’ambiente greco è caratterizzato da montagne non alte ma molto ripide che rendono difficili le comunicazioni via terra: si trasformarono cioè in città-stato. Il sistema delle relazioni tra le città-stato era caratterizzato da una elevata conflittualità (si calcola che tra il VII e il V secolo a.C. sia scoppiata in media una guerra ogni due anni). Alcune città-stato si imposero gradualmente sulle altre sia per il proprio potere militare, come il caso di Sparta, sia per la propria ricchezza, come Corinto e soprattutto Atene. Altre città-stato importanti erano Tebe, in Beozia, e le colonie fondate in Asia Minore e Magna Grecia: Mileto, Alicarnasso, Agrigento, Siracusa, Taranto.
Nel corso del VI secolo si assiste a una trasformazione decisiva: le leggi tradizionali delle comunità, fino a quel momento tramandate solo oralmente, vennero messe per iscritto. Il semplice fatto di trascrivere in una forma scritta l’insieme delle norme che devono regolare i rapporti tra i membri della comunità ne trasforma la natura: non si tratta più della espressione della volontà del signore dell’oikos (ossia della comunità), che occupa quella carica per semplice diritto ereditario, ma diventa espressione della comunità stessa, che ne diventa in qualche modo il custode. «Solo la scrittura può garantire loro la protezione dall’arbitrio individuale e momentaneo del potente, e assicurarne una validità che si desidera impersonale, universale, perpetua» [Vegetti 1989:39].
Nella città di Atene questo passaggio chiave è collegato a una serie di grandi riformatori: Dracone, una figura dai contorni poco conosciuti all’inizio del VI secolo, e soprattutto Solone e in seguito Clistene.
L’importanza di Solone, al di là delle effettive riforme introdotte nella legislazione ateniese, sta nel suo sforzo di «elaborare una presa di coscienza del senso della legge» [Vegetti 1989:40]
Prima di tutto, il concetto di «legge» inizia a staccarsi dalla sfera religiosa: il fondamento ultimo della vita associata rimane ancora il riferimento alle divinità, ma ad esso si associa lo sforzo dell’uomo per raggiungere l’equilibrio dei rapporti sociali, visto come condizione per una convivenza pacifica. Ancora una volta, è possibile rintracciare qui una eco della tradizione sapienziale greca, connessa col santuario di Apollo in Delfi, che esaltava l’idea di equilibrio.
Ma era necessario un passo ulteriore e decisivo: la stesura in forma scritta del testo della legge.
È questo il gesto che apre uno «spazio omogeneo» [Vegetti 1989:41], uguale per tutti, entro cui confrontarsi nel momento in cui prendere le decisioni che riguardano la collettività oppure i singoli: le differenze sociali non vengono abolite, ma a partire da questo momento ciascun membro della comunità sa di potersi confrontare con chiunque altro su un piano di parità.
Questo è possibile perché adesso il vero soggetto della vita diventa l’individuo in se stesso, staccato dalle sue relazioni familiari. È l’individuo che deve porsi, anche «fisicamente», davanti alla legge (che in quanto scritta è riportata su una tavola, o un muro, o un foglio) assumendosi la responsabilità di seguirla o di violarla.
La «isonomia», ossia l’uguaglianza della legge per tutti, garantita proprio dal suo essere fissata una volta per tutta in una forma scritta, si traduce immediatamente nella uguaglianza di tutti davanti alla legge: se la legge è uguale per tutti, tutti sono uguali davanti alla legge.
Fino a questo momento, invece, la società oralista tendeva a fondere e a con-fondere l’individuo con la famiglia di appartenenza, così che le colpe di un membro si riversavano sui successori che nulla avevano commesso.
Sul piano mitico, e poi letterario, ciò dava origine alle infinite faide tra gli dei o tra le famiglie (esemplare tra tutti è il destino degli Atridi), che si traducevano poi anche nelle faide politiche.
A partire da questo momento, la legge scritta rappresenta il luogo in cui la comunità prende coscienza di se stessa. I meccanismi e gli organi assembleari con i quali la legge viene prodotta divengono il cuore stesso della città-stato, proprio perché sono il luogo in cui si produce l’identità della collettività: è attraverso le leggi che i membri della comunità sanno chi sono.
La auto-nomia (dal greco nomos, legge, e autòs, se stesso), ossia la capacità della città-stato di dare a se stessa la legge, diventa così il bene più prezioso, quello da difendere a tutti i costi: per questo gli ateniesi percepivano come momento chiave della loro storia le guerre contro i persiani, che avevano chiesto loro di rinunciare proprio a questa capacità di dare a se stessi la legge.
Perché l’isonomia possa diventare qualcosa di effettivo erano però necessari altri passaggi. Il primo era di ordine organizzativo e istituzionale: l’assemblea che votava le leggi era ancora organizzata per famiglie (oikoi), secondo il vecchio sistema. Fu il legislatore Clistene, attorno il 505 a.C, a modificare questa situazione. Egli prima di tutto divise la popolazione ateniese in circoscrizioni territoriali, le tribù, che non avevano alcun rapporto con i luoghi di residenza fisica delle famiglie dominanti fino a quel momento (anzi i confini tra le tribù erano studiati apposta per rompere le alleanze tradizionali tra famiglia e famiglia).
Il principio base di questa operazione è chiarito dal filosofo Aristotele nel suo scritto apocrifo La costituzione degli Ateniesi: si voleva mescolare la popolazione, facendo in modo che in ogni tribù fossero presenti in parti uguali
- i contadini dell’interno montuoso dell’Attica, che erano i più poveri,
- gli abitanti della fascia costiera (che invece erano i più ricchi, grazie ai commerci)
- coloro che vivevano nella «mesogea», ossia la «terra di mezzo» tra il mare e la montagna, tra cui i grandi proprietari terrieri.
In questo modo ogni tribù rappresentava al suo interno tutte le componenti sociali e tutti gli interessi economici di Atene. Alla base della tribù c’era il demo, la più piccola divisione territoriale dello stato ateniese. L’appartenenza al demo di nascita serviva anche, insieme al nome proprio e al patronimico (il nome del padre) a identificare in modo unifico le persone: il filosofo Socrate per esempio all’inizio del processo che avrebbe portato alla sua condanna a morte si presentò come «Socrate, figlio di Sofronisco, del demo di Alopece».
Il secondo passaggio consiste nello stabilire il principio per il quale le principali cariche dello stato (non tutte, però) vengono scelte per sorteggio tra i membri delle tribù. In particolare vengono scelti per sorteggio i membri della boulè, l’organo formato da 500 membri che deve preparare l’ordine del giorno per le riunioni della ecclesia, l’assemblea generale di tutti i cittadini che si riuniva quattro volte al mese per votare le leggi e prendere le decisioni più importanti.
Questa riforma partiva evidentemente dal presupposto che tutti i cittadini fossero mediamente in grado di svolgere questi compiti.
Occorre qui ricordare che i membri della polis che potevano partecipare alla vita deliberativa della città-stato erano solo i maschi adulti liberi e non stranieri: erano cioè esclusi in linea di principio dal processo con cui si prendevano le decisioni e le si mettevano in pratica le donne, i giovani, gli schiavi e i meteci, ossia gli stranieri che si erano stabiliti in una certa città ottenendone solo i diritti civili.
Ne risulta quindi che il concetto di «democrazia» nel mondo greco era profondamente diverso dal nostro, che invece estende i diritti politici a tutti gli appartenenti alla comunità della nazione (con pochissime eccezioni: alcuni reati vengono puniti, oltre che con pene detentive, anche con la perdita, temporanea o definitiva, dei diritti politici).
In ogni caso, esisteva ad Atene una distribuzione in senso fortemente «orizzontale» dei compiti e delle responsabilità: tutti, all’interno del vasto gruppo dei cittadini politici, potevano essere chiamati, un giorno o l’altro, a dirigere i lavori della bulè, o a ricoprire altre cariche importanti.
Alcuni autori parlano di una concezione «militante» della vita politica ateniese, intendendo con ciò il fatto che nessuno poteva tirarsi indietro e che tutti sapevano di poter essere effettivamente chiamati a svolgere un ruolo chiave nella vita della propria collettività, indipendentemente dalla propria volontà.
Questa caratteristica della vita politica ateniese portava con sé un’altra necessità: quella della formazione permanente dei cittadini. Era questo il secondo passaggio chiave perché si potesse realizzare effettivamente la isonomia di cui abbiamo parlato prima. Proprio perché tutti potevano essere chiamati a gestire situazioni difficili e a prendere decisioni importanti, tutti dovevano essere pronti ad assumersi queste responsabilità, preparandosi in anticipo.
In altre parole, era necessaria una strategia di educazione collettiva, che però era resa difficile dalla mancanza di qualsiasi istituzione pubblica ufficialmente preposta a questo scopo: non esisteva l’obbligo scolastico (e neppure le scuole come le intendiamo noi) e d’altra parte non c’era nemmeno una «polizia» in grado di imporre la partecipazione al processo formativo.
Di qui l’importanza che acquistò ben presto nella riflessione collettiva il tema della «paideia», ossia della educazione intesa appunto come formazione continua dell’uomo e del cittadino.
L’intuizione fondamentale era quella di una «autoformazione» della polis: era la città-stato stessa, intesa come complesso di cittadini adulti e impegnati nella vita della comunità, che doveva con l’esempio insegnare ai giovani il modo corretto di comportarsi.
Un esempio evidente di questo travaso di generazione in generazione delle conoscenze e delle abilità necessarie per gestire situazioni complesse e difficili si ha nell’esperienza militare. Tutti i maschi adulti sopra i diciassette anni facevano parte dell’esercito e partivano per la guerra: in battaglia, nella compatta falange oplitica che per secoli rappresentò l’unica formazione tattica utilizzata dai greci, si trovavano così fianco a fianco giovani, adulti e anziani. Se i primi avevano forza e spavalderia, gli altri potevano contare su equilibrio ed esperienza, e mostravano ai giovani come affrontare il terribile stress del combattimento senza lasciarsi cogliere dal panico.
La prima e fondamentale strada seguita dalle poleis era il teatro.
Nel corso del V secolo però accanto a queste forme tradizionali e per così dire «istituzionali» del processo formativo del cittadino ne sorsero altre, nuove nel metodo e nei contenuti.
La prima era la proposta dei sofistès, i «sapienti» che si offrivano di insegnare, a pagamento, ai giovani la «aretè» del cittadino.
Il termine aretè viene normalmente tradotto con virtù ma questa traduzione, sia pur corretta dal punto di vista formale, tradisce il senso originale del termine.
«Aretè» infatti indica propriamente quella caratteristica che fa sì che una certa cosa sia davvero quella determinata cosa: la fedeltà di un cane da guardia, per esempio, è ciò che sia un vero cane da guardia; un cane da guardia che non sia fedele al suo padrone non è un vero cane da guardia. La aretè di un cavallo è la velocità, perché un cavallo che non sia veloce nella corsa non è un vero cavallo, ma qualcosa d’altro: un ronzino, una semplice cavalcatura, un semplice animale da tiro, al limite solo carne da macello.